Corte costituzionale: al convivente di fatto si applica la disciplina prevista per l’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile

Con sentenza n. 148/2024 del 04 luglio 2024 depositata il 25 luglio 2024 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 230 bis terzo comma del Codice Civile nella parte in cui non prevede, riguardo alla disciplina dell’impresa familiare, che il convivente di fatto (o convivente more uxorio) sia equiparato a un familiare. Tale dichiarazione di incostituzionalità, poi, implica che deve essere altresì essere dichiarato incostituzionale l’intero articolo art. 230-ter del codice civile in quanto prevede una disciplina speciale e depotenziata del lavoro prestato dal convivente di fatto nell’impresa familiare.
Con ordine. L’articolo 230 bis terzo comma considera come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Per “impresa familiare”, invece, si intende l’impresa nella quale collabora il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Dalla lettura, dunque, si ravvisa che il convivente di fatto (o convivente more uxorio) non può partecipare all’impresa familiare. Per lui è riservata una disciplina speciale contenuta nell’articolo 230-ter. Disciplina, però, che limita il diritto del convivente rispetto a quello del familiare: al primo, infatti, non spetta il diritto al mantenimento ma solo una partecipazione basata sui risultati economici dell’impresa in proporzione al lavoro prestato. In più per il convivente non è nemmeno previsto un diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di cessione dell’impresa; è escluso anche un diritto di partecipazione alle decisioni aziendali, che possono essere prese solo dal titolare o dai familiari che eventualmente collaborano con lui.
Si ricorda, per completezza espositiva, che la legge 76/2016 all’articolo 1 comma 36 intende come conviventi di fatto “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da unione civile”. In più, il comma 37, prevede che la stabile convivenza sia da determinare sulla base anche della residenza anagrafica dei due soggetti la quale, qualora coincida, indica chiaramente la stabilità del rapporto affettivo.
Nel dichiarare l’incostituzionalità dei due riferimenti normativi in esame, la Corte Costituzionale si basa anche sul fatto che le convivenze di fatto sono un diffuso fenomeno sociale tanto da sopravanzare in numero i matrimoni tradizionali diventando di fatto un tipo di rapporto interpersonale comunemente accettato. In ragione di questa diffusione, i rapporti interpersonali basati sulle convivenze di fatto meritano una tutela al pari di quelli basati su matrimoni formalizzati. Di conseguenza la Consulta non può far altro che dichiarare incostituzionale una disciplina civilistica che riduce i diritti patrimoniali dei conviventi all’interno di una impresa familiare.

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